Taraddei (Dg. Astro): “Dall’epidemia inventata a quella reale”

(Jamma) Il G.A.P. è un problema serio ed endemico per tutti i Paesi Industrializzati in cui siano presenti insediamenti organizzati di attività di gioco, – scrive l’avv. Silvia Taraddei dell’associazione Astro – ma da nessuna parte al Mondo il fenomeno viene assunto a “rilevanza epidemiologica”; ovunque, infatti, si caratterizza per incidenze statistiche di affezione conclamata troppo basse per indurre le strutture sanitarie ad attivare i protocolli predisposti per il contrasto delle patologia ad elevato “tasso di incidenza”.

L’Italia (ovvero una parte di essa) si “fregia” dell’epidemia di gioco (non distinguendo tra lecito e illecito) nonostante il c.d. “tasso di prevalenza” (quello che indica il tasso totale dei casi) si apprezzi sull’ordine del 5 per 100.000 della popolazione (circa quello della S.L.A.).

Un altro fenomeno, invece, che endemico non dovrebbe mai essere, rischia di diventare tale in breve tempo: è la crisi economica nella c.d. Euro-zona, caratterizzata da ricette politiche molto criticate dal premio nobel dell’economia, Paul krugman, e che in Italia (molto più di altrove) riescono a mietere una elevatissima mortalità delle imprese, con complicanze di “contagio” orizzontali e verticali (tra settori e tra filiere), che dovrebbero (queste si), attivare straordinari “protocolli di cura”.

L’economia europea, ci ricorda il premio nobel, si sta adagiando sulle regole disciplinanti la “depressione”, in luogo di reagire ad essa, rischiando di ottenere l’effetto contrario a quello auspicato, ovvero estendere il contagio del malessere anziché contenerlo e recintarlo nell’ambito di bilanci sempre più risparmiosi di spese. Pur senza essere nobel dell’economia si può convenire che sia difficile produrre ricchezza “dal nulla”, ovvero senza prima spendere qualcosa.

In Italia, parlare di questi temi è sinonimo di abbattimento dello share e del gradimento politico, ed è assolutamente bandito dai contesti politici “conservatori e innovatori”, arroccati al credo fideistico dei tagli alle spese, “degli altri”. Ciò è purtroppo attestato anche dai recenti dibattiti condotti dagli astri nascenti (e/o rigenerati) della politica, durante i quali gli Italiani possono imparare a memoria le voci di spesa più odiose del bilancio pubblico, ovviamente tutte promesse della medesima sforbiciata moralizzatrice che attendiamo invano da lustri.

Di cosa parlare, allora, se a nessun candidato alle “stanze del comando” è concesso il lusso (o il permesso) di trattare l’argomento della inversione di tendenza di un percorso inarrestabile di tracollo economico, a cui si sta accoppiando anche il declino del tessuto sociale? Ovvio: “di quell’orrore del gioco di Stato” che fa cassa sfruttando la carenza di intelletto delle fasce deboli (quindi tutte), oramai concepite come “zombie” vaganti tutto il giorno alla ricerca di una slot che “paghi”.

Se non si può parlare del “vero panico”, ovvero di un Paese che rischia di ritrovarsi tra qualche anno in un nuovo e terribile medio evo (i preludi di oscurantismo religioso già non mancano, al pari di certe posizioni di “laicismo talebano”) ad “economia zero” (ma soprattutto a democrazia “zero”), si adotta “il panico morale sul gioco pubblico”, peraltro funzionale anche a risollevare le sorti professionali di molti intellettuali.

A definitiva controprova dell’assunto che si è sostenuto si sono monitorati alcuni fenomeni molto “gravi”, e il trattamento ad essi riservato dal circuito mediatico: ne citiamo due, le c.d. baby-squillo e il disastro in Sardegna. Su di essi si sono applicate “alla lettera” le ciniche regole dell’”esaurimento della notizia” e dello “sfinimento dell’ascoltatore”, notoriamente sancite dai professionisti della comunicazione per garantirsi da un lato, la “coscienza pulita” per aver “molto trattato” un determinato argomento, ma dall’altro lato la certezza che dopo il “frastuono” iniziale nessuno sentirà più il bisogno di riceverne notizia. Per sette lunghi giorni, mattino e sera se ne è parlato ovunque e poi è calato il “sipario” del “narcotico” popolare, come se in Sardegna tutto fosse già stato “aggiustato” e la giovane generazione improvvisamente “rinsavita e ritornata alla purezza dell’adolescenza.

A rincarare la dose sul “colpevole vicario” di tutto, il gioco (ma solo quello lecito), vi è la riaffermata tesi sociologica secondo la quale “se non si spendesse al gioco” si spenderebbe sugli altri beni e servizi che generano economia “sana” (dal prosciutto al caffè , dall’automobile al cinema). L’assunto “sociologico” (importante rimarcarne la estraneità ai consessi della scienza economica) adottato dagli etici ideologhi dell’anti-gioco, è, si, matematico, ma ce lo si aspetterebbe riportato dal noto “Frassica” e non da titolati accademici.

E’ ovvio che se non si spende da una parte lo si fa dall’altra, ma questo non significa nulla. Che economia avremmo senza i 200 mila stipendi del circuito gioco lecito (che in quanto “buste paga” onorano tutte le tasse di questo ingrato Paese), senza i 50.000 punti vendita di gioco generalisti che annoverano i ricavi da apparecchi leciti come voce di entrata indispensabile per pagamento dell’affitto e dei fornitori del locale, senza i 9 miliardi di euro di soli prelievi tributari sul gioco oltre a quelli garantiti dal prelievo fiscale sulle oltre 6.000 aziende degli operatori?

Giocare con la matematica sembra facile al punto da invogliarne l’uso anche chi osserva ciò che matematico non è (ovvero il comportamento), ma poi ci si scontra con le sue regole.

Non si può prospettare che senza la spesa di gioco ci sarebbe più “economia”, senza considerare quanta “economia” si toglie se si elimina chi il gioco lo allestisce, gestisce, distribuisce.

E’ quindi ovvio che si sta adottando una visione “di razza” tra l’euro inserito nella slot e l’euro investito per una mozzarella, finalizzato a “dividere” e alimentare “dissenso e odio” .

A ciò si aggiunge che gli “assunti di base” di questa “sociologia della matematica” sono per lo più smentiti dalle stesse categorie chiamate in causa: tutto sostengono le rappresentanze di commercianti tranne che la loro crisi sia collegata al sistema gioco-lecito; tutto sostengono i tenutari dei cinema, tranne che la loro crisi sia collegata al sistema gioco-lecito, tutto sostengono i venditori di auto, tranne che la loro crisi sia collegata al sistema gioco-lecito.

Nessuno ha mai cercato “alibi” diversi dalle cause macro-economiche tipicamente italiche ed europee per il tracollo di certe attività; eppure oggi la “sociologia dell’anti-gioco” gliene offre uno nel tentativo di “farli salire” sul carro del movimentismo antagonista all’industria del gioco legale. “Ecco chi vi rovina” è il motto che esce dalla parte dell’accademia che eleva l’alea al ruolo di colpevole vicario di tutto.

Come già esposto in precedente nota “il circo” prima o poi chiude le tende, e a chi ha cavalcato il panico morale sul gioco lecito gli si dovrà chiedere perché non ha dedicato altrettanta dedizione per studiare e opporsi ai fenomeni che generano il “vero” volume di usura, ai fenomeni che generano “davvero” la disoccupazione, ai fenomeni che “davvero” consegnano a molti Italiani una giornata in cui spesso non si sa come poter passare il tempo.

In breve, prima o poi gli verrà chiesto perché (da liberi e giusti) non si sono mai occupati dei “veri” colpevoli della nostra crisi di economia e valori, anziché devolvere tutto il loro “endorsement” allo sgretolamento del “solo” circuito legale di gioco.

 

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