Il caso “Biasci”. Luci ed ombre della legittimazione del sistema concessorio italiano di Stefano Sbordoni

(Jamma) Coloro che hanno sempre creduto nella legittimità del sistema concessorio italiano possono tirare un sospiro di sollievo: con una pronuncia concisa la corte di Giustizia (III sez.) (sentenza del 12 settembre 2013 nelle cause riunite C-660/11 e C-8/12) ha sancito la compatibilità dell’attuale sistema concessorio italiano con i principi stabiliti dal Trattato CE. Nella pronuncia, al primo punto del PQM (cfr pag. 10 della sentenza) si legge che gli “articoli 43 e 49 CE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che imponga alle società interessate a esercitare attività collegate ai giochi d’azzardo l’obbligo di ottenere un’autorizzazioni di polizia, aggiunta a una concessione  rilasciata dallo Stato al fine di esercitare simili attività, e che limiti il rilascio di una siffatta autorizzazione segnatamente ai richiedenti che già  sono in possesso di una simile concessione”.  Se dalla pronuncia fosse stato enucleato solo questo principio, avremmo potuto dire con tutta serenità che il grande conflitto tra Stato-Concessionari da una parte e CTD dall’altra, poteva considerarsi concluso con una schiacciante vittoria a favore dello Stato; nostro malgrado, anche questa pronuncia, apparentemente una “fotocopia” dell’illustre precedente Costa-Cifone, nasconde passaggi che meritano di essere evidenziati, in quanto possono costituire un importante stimolo per il futuro del sistema concessorio italiano. Al 30 giugno 2016 scadranno tutte le concessioni terrestri ad oggi regolamentate da ADM; come abbiamo più volte detto, entro quella data sarà necessario ridisegnare l’intero sistema delle licenze onde evitare di commettere nuovamente errori banali, che  potrebbero essere censurati dalla Corte di Giustizia.

Con la pronuncia in esame, in risposta al primo quesito proposto dal Giudice del Tar per la Toscana (“con la prima questione il giudice di rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 43 CE e 49 CE debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che imponga alle società interessate a esercitare attività collegate ai giochi d’azzardo l’obbligo di ottenere un’autorizzazione di polizia, in aggiunta a una concessione rilasciata dallo Stato al  fine di esercitare simili attività, e che limiti il rilascio di una siffatta autorizzazione segnatamente ai richiedenti che sono già in possesso di una simile concessione” cfr pag. 6 della sentenza de qua) il collegio della Corte di Giustizia ha sostanzialmente dichiarato che la normativa italiana, che prevede una dualità di autorizzazioni (la concessione rilasciata da ADM e la licenza rilasciata dalla Prefettura) non osta agli articoli 43 e 49 CE. A tal proposito degno di nota appare il seguente passaggio “il fatto che un operatore debba disporre sia di una concessione sia di un’autorizzazione di polizia per poter accedere al mercato di cui trattasi non è, in sé, sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore nazionale, ossia quello della lotta alla criminalità collegata ai giochi d’azzardo” (cfr punto 27 pag. 7).  Da ciò ad avviso della Corte ne consegue che se nell’ambito del rilascio delle concessioni sono state commesse irregolarità, queste potrebbero viziare anche il procedimento connesso al rilascio della licenza ex art. 88 TULPS.  E dunque se il bando Bersani fosse stato viziato a causa delle distanze e del disposto dell’art. 23, comma 3 dello schema accessivo alla convenzione (“Aams (….) procede con la decadenza della concessione (…) qualora il concessionario commercializzi in proprio od anche attraverso siti telematici situati al di fuori dai confini nazionali giochi assimilabili ai giochi pubblici ovvero giochi vietati dall’ordinamento italiano”), questi vizi alla fonte, avrebbero impedito di fatto ai bookmaker di entrare in maniera legittima nel sistema concessorio italiano.  Fin qui tutto chiaro (sic!): del resto lo stesso principio è stato esposto nel precedente Costa Cifone. Senonché la Corte sembra andare oltre, rilevando che “occorre precisare che gli articoli 43 CE e 49 CE ostano ad una normativa nazionale che impedisca di fatto qualsiasi attività transfrontaliera nel settore del gioco indipendentemente dalla forma di svolgimento della suddetta attività e, in particolare, nei casi in cui avviene un contratto diretto fra il consumatore e l’operatore ed è possibile un controllo fisico, per finalità di pubblica sicurezza, degli intermediari dell’impresa presenti sul territorio”. Non si comprende qui se si riferisca agli illustri esclusi o ad un principio generale, che certo andrebbe a collidere con la legittimazione del sistema concessorio riconosciuta dalla stessa Corte con la sentenza de qua. Non menziona la Corte – anche perché vicenda successiva ai fatti che hanno originato la Biasci – il rimedio al presunto vizio di cui sopra è stato in parte il bando c.d. dei 2000 punti che, seppure oggetto di recente pronuncia da parte del Consiglio di Stato (vedi ns articolo in merito del 5 settembre) resta in vigore ed esplica efficacia. Con la conseguenza chiara ed ineluttabile che chi ne è fuori ed opera, proprio alla luce di quanto qui nella Biasci sancito dalla CGE, è illegale.

Alla risposta al terzo quesito proposto dal Tar per la Toscana (“con la terza questione il giudice di rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 43 CE e 49 CE debbano essere interpretati nel senso che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, la circostanza che un operatore disponga, nello Stato membro in cui è stabilito, di un’autorizzazione che gli consente di offrire giochi d’azzardo osta a che un altro Stato membro subordini il possesso di un’autorizzazione rilasciata dalle proprie autorità la possibilità, per un tale operatore, di offrire siffatti servizi a consumatori che si trovino nel suo territorio”) i Giudici europei rilevano:

1)   non c’è armonizzazione in materia di giochi d’azzardo a livello europeo, e per l’effetto non esiste alcun obbligo di mutuo riconoscimento della autorizzazioni rilasciate dai vari Stati membri;

2)   per l’effetto di quanto esposto al punto 1, ogni Stato membro conserva il diritto di subordinare la possibilità per gli operatori che intendano proporre giochi d’azzardo a consumatori che si trovino sul territorio al rilascio di un’autorizzazione da parte delle sue Autorità competenti, senza che la circostanza che un operatore privato sia già titolare di un’autorizzazione rilasciata da altro Stato membro possa essere d’ostacolo.

Di fatto e di diritto si riconosce la legittimità dell’ulteriore requisito richiesto dallo Stato dove si va ad operare rispetto a quello concesso ab origine dallo Stato membro.

Eccoci dunque a tre anni (meno, dati i tempi di preparazione) dal grande boom, in un senso o nell’altro. Quello che risulta chiaro è che una totale deregulation non rientra nei piani ne della UE ne dei singoli membri. E a questo si preparino anche i professionisti del ricorso e dell’impugnazione: che siano una buona volta operatori di gioco e lavorino da imprenditori, non più da baciati dalla sorte a guadagnare solo nelle pieghe di strafalcioni normativi e giudiziari.

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