Gli avvocati Alvise Vergerio di Cesana e Luca Porfiri hanno appena ottenuto, da parte del Consiglio di Stato, una nuova pronuncia di rimessione alla Corte di Giustizia dell’UE di importanti questioni pregiudiziali sulla compatibilità con il diritto eurounitario del regime giuridico nazionale cui è assoggettato il gioco del Bingo. Si tratta, in particolare, della recentissima ordinanza n. 1071/2023 pubblicata in data odierna, con la quale la IV Sezione del Consiglio di Stato (sulla scia dell’ordinanza n. 10261/2022 della VII Sez. del CdS) ha sollevato innanzi alla Corte di Giustizia dell’UE rilevanti dubbi di compatibilità della disciplina legislativa nazionale del gioco del bingo con il diritto eurounitario.

Nell’ordinanza del CdS si legge quanto segue:

“Le società indicate in epigrafe sono piccole imprese che svolgono attività di gestione delle sale da Bingo in virtù di concessioni scadute. In particolare, alla società (…) è stata rilasciata la concessione 11 febbraio 2009, con scadenza 30 maggio 2014, n. (…); alla (…) è stata rilasciata la concessione 15 giugno 2009, n. (…), con scadenza 16 giugno 2015; alla (…) è stata rilasciata la concessione 19 settembre 2009, n. (…), con scadenza 10 settembre 2014.

Le appellanti deducono che l’art. 1, comma 636, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2014): i) aveva previsto, per assicurare l’allineamento temporale di tutte le concessioni ai fini dell’indizione della nuova gara, la proroga tecnica delle concessioni in atto; ii) aveva determinato il canone dovuto dai concessionari beneficiari della proroga, in 2.800 euro per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni e in 1.400 euro per ciascuna frazione di mese inferiore a quindici giorni; iii) aveva introdotto il divieto di partecipare alla gara per la riattribuzione della concessione per i titolari di concessione scaduta che non avessero acconsentito al regime di proroga.

L’art. 1, comma 934, della legge 28 dicembre 2015, n. 209 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2016 e bilancio pluriennale per il triennio 2016-2018) ha poi incrementato il canone dovuto dagli operatori titolari di concessioni scadute in regime di proroga tecnica, da 2.800 a 5.000 euro per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni e da 1.400 a 2.500 euro per ciascuna frazione di mese inferiore a quindici giorni e ha vietato il trasferimento dei locali.

L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in attuazione di tale normativa, ha altresì adottato il provvedimento 5 gennaio 2015, n. 700.

1.2.- Le Società hanno impugnato, innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, tale provvedimento, per le medesime ragioni riportate nell’atto di appello e indicate nei successivi punti.

1.3.- Il Tribunale amministrativo, con sentenza 26 marzo 2019, n. 402, ha rigettato il ricorso, ritenendo, in particolare, che: i) la proroga avrebbe valenza temporanea e gli appellanti trarrebbero in ogni caso una utilità economica dalla protrazione del rapporto concessorio, senza che risulti dimostrata l’impossibilità di pagamento del nuovo canone; ii) il trasferimento dei locali sarebbe giustificato dalla necessità di stabilire i criteri per la distribuzione e la concentrazione territoriale dei luoghi destinati alla raccolta del gioco.

1.4.- Le Società hanno proposto appello, sostenendo l’erroneità della sentenza e l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per le seguenti ragioni.

A. Violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalità dell’intervento normativo e del provvedimento amministrativo attuativo in quanto è stata disposta la proroga: i) senza che vi fosse una ragione giustificativa, non potendosi considerare tale la dichiarata finalità di assicurare l’allineamento temporale; ii) con un aumento del canone nonostante la costante diminuzione del volume di raccolta del Bingo; iii) con rinvio della indizione della nuova gara senza una precisa indicazione temporale e con imposizione dell’onere gravoso di dovere consentire la proroga come condizione per poter essere ammesso alla partecipazione alla nuova gara.

B. Violazione del principio di ragionevolezza e del principio di concorrenza tra gli operatori, in quanto si imporrebbe lo stesso trattamento normativo agli operatori economici del settore senza distinzione tra le diverse dimensioni, con conseguente svantaggio competitivo per le piccole imprese, quali sono le appellanti, che opererebbero anche in aree poco sviluppate. E’ stata depositata una relazione tecnica di parte volta a dimostrare l’incidenza negativa, in termini percentuali, dell’aumento del canone sul fatturato delle appellanti.

C. Violazione dei principi di ragionevolezza e di principio di capacità contributiva (artt. 3 e 53 Cost.), in quanto la prestazione richiesta – che avrebbe, per le sue caratteristiche, natura tributaria –non terrebbe conto dell’effettiva capacità economica dei singoli operatori, assimilandoli tutti nel forzoso pagamento forfettizzato e sproporzionato.

D. Violazione degli artt. 3, 41, 117 Cost., nonché dei principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, nella parte in cui è stato disposto il divieto di trasferimento dei locali per tutto il periodo della proroga tecnica.

1.5.- Si sono costituite in giudizio le amministrazioni resistenti, chiedendo il rigetto dell’appello.

1.6.- Hanno depositato atto di intervento ad adiuvandum i soggetti indicati in epigrafe, in qualità di lavoratori delle Società ai quali è stato comunicato preavviso di licenziamento.

1.7.- La causa è stata trattenuta in decisione all’esito dell’udienza pubblica del 1° dicembre 2022.

2.– Rinvio pregiudiziale europeo.

La Sezione ritiene che debba essere disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

L’art. 267 del Trattato su funzionamento dell’Unione europea (Tfue) prevede che la Corte di Giustizia è competente a pronunciarsi: «a) sull’interpretazione dei Trattati; b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione». Il rinvio è obbligatorio in presenza di un organo giurisdizionale di ultima istanza, «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno».

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha rilevato che il rinvio pregiudiziale costituisce «la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati, instaura un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri che mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati» (Corte giust. un. eur., Grande Sezione, 6 ottobre 2021, n. 561).

I requisiti del rinvio pregiudiziale sono costituiti dalla rilevanza della questione e da un dubbio di non conformità della normativa nazionale a quella europea, che non può ritenersi sussistente sia nel caso di esistenza di una sentenza interpretativa della Corte che si sia già pronunciata sulla stessa questione sia dal fatto che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (Corte giust. un. eur., Grande Sezione, n. 561 del 2021, cit).

La domanda di pronuncia pregiudiziale deve contenere, «in primo luogo, un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia nonché dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio o, quanto meno, un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si basano le questioni, in secondo luogo, il contenuto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e, se del caso, la giurisprudenza nazionale in materia e, in terzo luogo, l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile al procedimento principale» (Corte di Giustizia un. eur., sez. IX, 10 gennaio 2022, n. 437).

2.1.- Rapporto tra rinvio pregiudiziale europeo e costituzionale.

Il rapporto tra rinvio pregiudiziale europeo e costituzionale va ricostruito ritenendo che occorre – in presenza di una normativa europea direttamente applicabile – proporre prima la questione pregiudiziale europea, che può condurre alla disapplicazione della normativa nazionale eventualmente confliggente, con conseguente mancanza del requisito della rilevanza della questione di costituzionalità.

Soltanto nel caso in cui la normativa europea direttamente applicabile sia posta a tutela dei diritti fondamentali protetti dalla Carta di Nizza o anche da altra fonte primaria europea, il giudice nazionale può decidere, alla luce della specificità della vicenda concreta al suo esame, quale sia il rinvio da effettuare per primo (Corte cost. n. 269 del 2017, nn. 20, 63 e 117 del 2019).

Nella fattispecie in esame, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’eccezione da ultimo indicata, il Collegio ritiene che debba essere proposta prima questione pregiudiziale europea per le ragioni indicate nei successivi punti della presente decisione, riservandosi di valutare la sussistenza dei requisiti per proporre successivamente una questione pregiudiziale costituzionale, ove eventualmente ancora rilevante.

E’ bene aggiungere che la Corte Costituzionale ha già esaminato la conformità a Costituzione della normativa nazionale che viene in rilievo in questa sede, ritenendo non fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata, ma limitatamente ai soli parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente (sentenza n. 49 del 2021). In particolare, si è affermato che nell’ordinanza di rimessione non fosse stato censurato il «principio di onerosità delle concessioni» né «la legittimità della scelta legislativa di prorogare l’efficacia dei titoli concessori ormai scaduti».

In ogni caso, la presenza di una sentenza della Corte Costituzionale non può costituire un impedimento, neanche quando è stata resa nel medesimo giudizio, a disporre un successivo rinvio pregiudiziale (Corte Giust. un. eur., sez. I, 20 dicembre 2017, n. 322).

3.- Normativa nazionale.

3.1.- Nell’ordinamento nazionale i giochi e le scommesse (d’ora innanzi, per brevità, solo giochi) sono distinti in tre categorie.

La prima categoria è costituita dai giochi vietati dall’ordinamento. Vi rientrano sia i giochi penalmente sanzionati che sono i giochi d’azzardo nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria (art. 721 cod. pen.), sia i giochi vietati dall’autorità di pubblica sicurezza per ragioni di natura pubblica. Il contratto è normalmente considerato avente causa illecita per contrarietà al buon costume, con conseguente irripetibilità, per finalità sanzionatorie, delle prestazioni erogate (art. 2035 cod. civ.).

La seconda categoria è costituita dai giochi leciti costituiti dalle competizioni sportive e dalle lotterie autorizzate (art. 1935 cod. civ.), nonché dagli altri giochi ammessi dalla legislazione speciale di settore. Il contratto è un contratto aleatorio per natura, in quanto, avendo riguardo al momento genetico, deve essere oggettivamente incerta ex ante l’incidenza sulle prestazioni, nella fase attuativa del rapporto contrattuale, dell’evento futuro.

La terza categoria è costituita dai giochi non proibiti ma tollerati. L’attività di gioco in questo caso è fonte di una obbligazione naturale, con conseguente rilevanza giuridica limitata all’impossibilità di ripetizione di quanto corrisposto (art. 1933 cod. civ.).

3.2.- I giochi possono avere natura “privata” ovvero natura “pubblica” quando coinvolgono un numero rilevante di soggetti.

In quest’ultimo caso, l’esigenza di assicurare la tutela dell’interesse pubblico alla sicurezza pubblica e la tutela dei consumatori giustifica, per taluni giochi, una organizzazione amministrativa degli stessi.

Tale organizzazione avviene, normalmente, mediante due diverse modalità organizzative.

La prima modalità è caratterizza dalla previsione di una riserva di attività in capo all’amministrazione statale, con possibilità di assegnare la gestione dell’attività stessa ai concessionari. In particolare, l’art. 1 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496 (Disciplina delle attività di gioco) dispone che «l’organizzazione e l’esercizio di giuochi di abilità e di concorsi pronostici, per i quali si corrisponda una ricompensa di qualsiasi natura e per la cui partecipazione sia richiesto il pagamento di una posta in denaro, sono riservati allo Stato». La titolarità dei poteri pubblici, per ragioni di unificazione delle competenze, è stata attribuita all’Agenzia dei monopoli di Stato (art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2002).

I concessionari, che si limitano ad esercitare l’attività amministrativa di cui l’amministrazione pubblica rimane titolare, stipulano contratti di gioco con i singoli giocatori. In questa attività si avvalgono dell’attività di altri soggetti che compongono la filiera (ad esempio, ricevitorie) e che costituiscono, in ambito negoziale, loro ausiliari ai sensi dell’art. 1228 cod. civ.

La seconda modalità è costituita dalla possibilità di svolgimento diretto da parte di soggetti privati dell’attività di gioco mediante il rilascio di una autorizzazione con funzione di controllo.

I giochi possono essere classificati secondo differenti criteri, uno dei quali distingue tra: i) giochi in cui l’ammontare del premio spettante al vincitore è determinato fin dall’inizio della giocata (vi rientra, ad esempio, il lotto); ii) giochi in cui l’ammontare non è predeterminato perché varia a seconda del numero dei giocatori (vi rientra, ad esempio, il Bingo).

3.3.- Nel settore del gioco del Bingo, in attuazione di quanto previsto dall’art. 16 della legge 13 maggio 1999, n. 133, è stato adottato il decreto ministeriale 31 gennaio 2000, n. 29.

Tale decreto dispone che il Bingo consiste nell’estrazione di novanta numeri e i giocatori dispongono di cartelle su cui sono stampati quindici numeri diversi distribuiti su tre file orizzontali di cinque numeri ciascuna e su nove colonne verticali. Le combinazioni vincenti sono la cinquina e il bingo, che si realizzano, rispettivamente, quando sono estratti tutti i cinque numeri che formano una fila orizzontale oppure tutti i quindici numeri di una cartella (art. 4).

L’esercizio del gioco è riservato al Ministero delle finanze (art. 1) che attribuisce la gestione dello stesso a concessionari nel rispetto di taluni criteri specificamente previsti, tra i quali: a) trasparenza dell’assetto proprietario ed efficienza della gestione delle singole sale di effettuazione del gioco; b) razionale e bilanciata distribuzione sul territorio, secondo parametri programmati e controllabili, della rete di sale destinate alla effettuazione del gioco; c) garanzia della libertà di concorrenza e di mercato mediante la previsione di parametri volti ad impedire l’abuso di posizioni dominanti, tenendo anche conto del numero delle concessioni attribuite a ciascuna persona fisica o società e del volume di gioco raccoglibile da ciascun concessionario.

In definitiva, la scelta legislativa è stata nel senso di prevedere una riserva pubblica di attività, ma poi di ricorrere a terzi e, dunque, al mercato mediante l’istituto concessorio per lo svolgimento concreto di tale attività.

3.4.- La regolazione della proroga delle concessioni in corso di svolgimento è stata nel tempo caratterizzata da diversi interventi normativi.

Le concessioni, nella configurazione originaria, avevano natura gratuita con interesse statale derivante dalla previsione di un prelievo erariale e durata di sei anni, decorsi i quali le concessioni si sarebbero potute rinnovare per una sola volta (art. 2, comma 1, lett. e, del decreto ministeriale n. 29 del 2000).

Nel 2013 il legislatore ha: i) prorogato le concessioni in corso; ii) introdotto il principio dell’onerosità delle concessioni e fissato nella somma di 200.000 euro della soglia minima corrispettiva per l’attribuzione di ciascuna concessione; iii) previsto il mantenimento della durata di sei anni delle nuove concessioni; iv) fissato il termine per l’indizione della procedura di selezione dei nuovi concessionari al 31 dicembre 2014; v) stabilito la proroga tecnica, a semplice richiesta, delle concessioni in scadenza negli anni 2013 e 2014; vi) determinato un canone, dovuto dai concessionari beneficiari della proroga tecnica, di 2.800 euro per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni e in 1.400 euro per ciascuna frazione di mese inferiore a quindici giorni; vii) introdotto il divieto di partecipare alla gara per la riattribuzione della concessione per i titolari di concessione scaduta che non avessero accettato di accedere al regime di proroga tecnica (art. 1, commi 636-638, della legge n. 147 del 2013).

Nel 2015 il legislatore – con normativa che rileva in questa sede – ha: i) esteso il regime di proroga tecnica anche alle concessioni in scadenza negli anni dal 2015 al 2016; ii) aumentato da 200.000 a 350.000 euro la soglia minima corrispettiva per l’attribuzione di ciascuna concessione; iii) innalzato da sei a nove anni la durata delle concessioni e previsto la non rinnovabilità delle stesse; iv) spostato dal 31 dicembre 2014 al 31 dicembre 2016 il termine per l’attribuzione delle concessioni; v) incrementato il canone dovuto dagli operatori titolari di concessioni scadute in regime di proroga tecnica, da 2.800 a 5.000 euro per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni e da 1.400 a 2.500 euro per ciascuna frazione di mese inferiore a quindici giorni; vi) vietato il trasferimento dei locali per tutto il periodo della proroga tecnica (art. 1, comma 934, legge n. 209 del 2015, cit.).

Nel 2017 il legislatore ha ulteriormente: i) esteso la proroga tecnica alle concessioni in scadenza negli anni dal 2017 al 2018; ii) spostato dal 31 dicembre 2016 al 30 settembre 2018 il termine per procedere alla gara per l’attribuzione delle 210 concessioni; iii) elevato ulteriormente il canone di proroga tecnica per le concessioni scadute da 5.000 euro a 7.500 euro per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni e da 2.500 euro a 3.500 euro, per frazione inferiore a quindici giorni (art. 1, comma 1047, della legge 27 dicembre 2017, n. 205, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”).

Nel 2019 il legislatore ha esteso ancora una volta il regime di proroga tecnica dal 2013 al 2020, fissando al 30 settembre dello stesso anno 2020 il termine per il bando (art. 24, comma 2, decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124, convertito con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157).

Nel 2020 il legislatore ha disposto, da un lato, il non pagamento del canone per tutto il periodo di sospensione dell’attività delle sale di bingo per la pandemia da Covid-19 e, dall’altro, il differimento del termine per l’indizione della gara al 30 marzo 2021 (art. 69, comma 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), termine successivamente ulteriormente prorogato al 31 marzo 2023 (art. 1, comma 1130, della legge 30 dicembre 2020, n. 178).

4.- Normativa europea.

Nella prospettiva europea l’attività del gioco e della scommessa costituisce attività economica di impresa.

Allo stato, nonostante vi siano stati alcuni tentativi di armonizzazione delle discipline nazionali, manca una regolamentazione specifica uniforme nel settore in esame.

Non si applica la direttiva 2006/123 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, che regola le modalità di svolgimento dell’attività di impresa, per espressa previsione della direttiva stessa (art. 2).

Sembra non potersi applicare neanche la direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, in quanto è previsto che essa «non dovrebbe pregiudicare la libertà degli Stati membri di scegliere, conformemente al diritto dell’Unione, le modalità di organizzazione e di controllo dell’esercizio dell’attività dei giochi d’azzardo, anche mediante autorizzazioni» (considerato 35).

La concessione di servizi configurata dalla suddetta direttiva è un contratto di servizi stipulato con un privato che deve svolgere un’attività economica di impresa di cui è “titolare” e che è connotato, rispetto al contratto di appalto, dall’assunzione di un particolare rischio per il fatto che almeno parte del corrispettivo deve essere corrisposto dagli utenti. La concessione può avere anche un oggetto pubblico, quando vengono in rilievo servizi di interesse economico generale per assicurare la «missione specifica» finalizzata a garantire a tutti quella determinata prestazione (art. 106, par. 2, Tfue).

Come sopra rilevato, il legislatore nazionale ha dettato una disciplina specifica nel settore in esame, configurando un monopolio legale con riserva della titolarità dell’attività e attribuzione ai concessionari della sola gestione dell’attività stessa. La diversità delle tipologie di concessioni regolate dalle normative riportate sembra giustificare la mancata applicazione della direttiva n. 23 del 2004.

Pur in assenza di una disciplina europea specifica di fonte derivata, si applicano – venendo in rilievo un’attività economica di impresa – le norme del Trattato che tutelano sia la libertà di stabilimento, che importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio (art. 49), sia la libertà di prestazione di servizi (art. 56) che implica, tra l’altro, il libero svolgimento di attività di impresa.

Al fine di stabilire quando tali libertà europee sono violate occorre svolgere le seguenti verifiche.

In primo luogo, è necessario che la misura nazionale abbia determinato una restrizione delle suddette libertà.

In secondo luogo, se la restrizione sussiste, occorre stabilire se la stessa possa essere giustificata alla luce sia di limiti specifici espressamente consentiti dal Trattato sia del limite generale costituito dai “motivi imperativi di interesse generale”, che sono diversamente costruiti a seconda del settore di riferimento.

Infine, se i suddetti motivi imperativi sussistono, occorre valutare se la normativa nazionale derogatoria rispetto alle libertà europee rispetti i seguenti altri principi generali europei: i) principio del pari trattamento, che vieta che la deroga nazionale crei discriminazione tra situazioni giuridiche nazionali ed europee; ii) principio di proporzionalità, che impone che la misura nazionale sia adeguata, idonea e proporzionata in senso stretto rispetto alla tutela dell’interesse pubblico nazionale, al fine di stabilire se il sacrificio dell’interesse pubblico europeo sia in concreto giustificato; iii) principio di affidamento dei privati incisi da una normativa eventualmente retroattiva ovvero che pregiudichi posizioni consolidate; iv) principio di trasparenza e principio di concorrenza per il mercato, qualora sussista l’esigenza di scelta limitata dei soggetti privati che possano svolgere quella attività.

5.- Motivi del possibile contrasto della normativa nazionale con la normativa europea.

Il Collegio ritiene che sussistono i presupposti, individuati dalla giurisprudenza europea, per disporre il rinvio pregiudiziale e, in particolare: i) la rilevanza della questione risulta dalla circostanza che, in caso di accertata difformità della normativa nazionale rispetto a quella europea, ne conseguirebbe l’accoglimento dell’appello; ii) il dubbio di non conformità al diritto europeo sussiste in mancanza di precedenti specifici della Corte di Giustizia e di evidenza di conformità.

Tale dubbio si fonda sulle ragioni di seguito indicate (analoghi rinvii sono stati disposti da Cons. Stato, sez. VII, ordinanze 21 novembre 2022, n. 10264 e n. 10263).

La prima verifica da svolgere è se la regola nazionale costituisca una restrizione della libertà di stabilimento e della libertà di prestazione di servizi.

La riserva pubblica di attività è un evidente caso di chiusura del mercato che deve essere giustificata dalla sussistenza di preminenti interessi pubblici. L’art. 43 Cost. autorizza, infatti, forme di monopolio pubblico quando, tra l’altro, esse «abbiano carattere di preminente interesse generale». Nella specie, la Corte Costituzionale ha ritenuto che sussistono interessi pubblici da tutelare, costituiti dalle «esigenze di contrasto della criminalità e, più in generale, di ordine pubblico e di fede pubblica», nonché la «necessità di tutela dei giocatori e di controllo di un fenomeno suscettibile di coinvolgere ingenti quantità di denaro, talvolta di illecita provenienza» (Corte cost. n. 300 de 2011).

Ferma l’astratta legittimità della scelta legislativa di creare una riserva di attività, il legislatore ha poi deciso di aprire al mercato mediante il ricorso alla gestione con concessione.

Ciò che è necessario accertare attiene, pertanto, all’eventuale restrizione delle libertà europee degli operatori economici che intendono svolgere l’attività oggetto delle concessioni.

Il Collegio ritiene che la normativa nazionale sulle plurime reiterazioni delle proroghe tecniche costituisca una misura restrittiva delle libertà europee per la concomitanza dei seguenti fattori.

In primo luogo, i numerosi aumenti del canone disposti nel tempo, prescindendo dalla effettiva situazione del mercato e da ogni valutazione delle dimensioni delle imprese, incide in modo indifferenziato su tutti gli operatori economici del settore, senza tenere conto della reale capacità, soprattutto delle piccole imprese, di sostenere tale aumento.

In secondo luogo, l’imposizione dell’accettazione della proroga quale condizione legale per poter partecipare alle più volte preannunciate e mai attuate gare si risolve in una non ragionevole limitazione della libertà di impresa a causa, in particolare, della indeterminatezza temporale dell’effettivo momento di svolgimento delle gare stesse.

Infine, è imposto l’obbligo di non cedere i locali, che costituisce, considerata la valenza strumentale dei beni ai fini dello svolgimento dell’attività di impresa, indebita e apparentemente ingiustificata restrizione della suddetta libertà.

In definitiva, gli operatori economici sono privati della concreta possibilità di interrompere il rapporto concessorio, modificato ex lege in modo assai gravoso, in quanto non hanno certezze in ordine ai tempi di svolgimento delle future gare il cui avvio è finora sempre stato sistematicamente rinviato. L’ “uscita dal rapporto concessorio” si potrebbe risolvere in una “uscita dal mercato”, irragionevolmente imposta dalle leggi sopra riportate.

La seconda verifica da svolgere attiene alla sussistenza di un motivo imperativo di interesse generale che giustifichi le suddette restrizioni.

Il Collegio ritiene che tale motivo non sussista.

La normativa nazionale che si è susseguita negli anni, sopra riportata, ha indicato quale scopo delle previsioni quello di «contemperare il principio di fonte comunitaria secondo il quale le concessioni pubbliche vanno attribuite ovvero riattribuite, dopo la loro scadenza, secondo procedure di selezione concorrenziale con l’esigenza di perseguire, in materia di concessioni di gioco per la raccolta del Bingo, il tendenziale allineamento temporale di tali concessioni, relativamente a queste concessioni in scadenza (…)».

Si potrebbe astrattamente ritenere che l’esigenza di “allineamento” abbia una sua giustificazione e possa indirettamente costituire un motivo imperativo generale di interesse pubblico, nel senso che la gestione unitaria delle gare rappresenti una modalità che assicuri meglio gli interessi pubblici sottesi alla stessa disciplina nazionale. In concreto, però, la normativa – soprattutto per la plurima reiterazione dei rinvii disposti negli anni – non sembra presentare un contenuto idoneo a perseguire realmente tale obiettivo, perché è stato introdotto un allineamento generalizzato per tutti i concessionari con proroghe ripetute non più giustificate dall’esigenza di allineamento. Deve, pertanto, ritenersi che, per come è stata nel tempo costruita la regola in esame, la stessa non possa costituire motivo imperativo di interesse generale.

La terza verifica da svolgere, anche a volere ammettere che sussista un motivo imperativo di interesse generale, è se siano rispettati gli altri principi europei che si collocano in questa fase.

Il Collegio ritiene che probabilmente tali principi non siano stati rispettati.

In primo luogo, sembra violato il principio di proporzionalità, perché la misura restrittiva, per come è stata regolata, non è adeguata né idonea a raggiungere l’obiettivo dichiarato.

In secondo luogo, sembra violato il principio di concorrenza per il mercato. L’istituto della proroga tecnica, nella sua corretta funzione, dovrebbe rispondere all’esigenza di consentire la prosecuzione del rapporto contrattuale scaduto per il «tempo strettamente necessario alla conclusione delle procedure necessarie per l’individuazione di un nuovo contraente» (art. 106, comma 11, decreto legislativo 1° aprile 2016, n. 50).

Nella fattispecie in esame, la scelta di effettuare plurime e reiterate proroghe dei rapporti concessori e di procrastinare l’indizione di nuove gare si pone, nei fatti, in contrasto con il suddetto di principio di concorrenza per il mercato. La proroga, infatti, impedisce, da un lato, ad altri operatori di settore di entrare nel mercato e dall’altro – ed è questo l’aspetto che più rileva in questa sede – per le ragioni già indicate non consente neppure a chi già sta svolgendo l’attività di poter interrompere il rapporto concessorio se non rinunciando definitivamente a partecipare alle future procedure di gara, inibendogli dunque ogni possibilità di presentazione di una domanda parametrata alle proprie effettive capacità tecniche e finanziarie. In definitiva, la “proroga delle concessioni” e la “proroga delle gare” si è risolta ormai da otto anni in una sostanziale chiusura del mercato sine die con violazione del principio di concorrenza.

La stessa Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 49 del 2021, pur ritenendo la questione di costituzionalità non fondata alla luce dei parametri evocati, ha affermato che tale esito «non cancella i gravi profili disfunzionali della prassi legislativa del costante e reiterato rinvio delle gare, mediante interventi che – anziché favorire il passaggio verso la nuova regolazione di questo settore di mercato – si limitano a estendere, di volta in volta, l’ambito temporale della disciplina transitoria della proroga tecnica delle precedenti concessioni». Si è aggiunto che «ciò è fonte di incertezza nelle attività e nelle prospettive degli operatori e rende auspicabile, anche a tutela della concorrenza, l’approdo a un quadro normativo in tutti i suoi aspetti definito e stabile».

6.- Alla luce di quanto esposto, il Collego prospetta le seguenti questioni interpretative.

A. Se la normativa nazionale, sopra riportata, viola le libertà europee di stabilimento e di impresa, in quanto: i) determina un aumento del canone che prescinde dalla valutazione delle dimensioni delle imprese; ii) impone l’accettazione della proroga e del suddetto aumento del canone, aggravato dal divieto di cessione dei locali, quale irragionevole condizione per potere partecipare alle successive gare che vengono anch’esse indefinitivamente posticipate.

B. Qualora si dia risposta positiva al primo quesito, si dubita che la suddetta restrizione possa ritenersi giustificata per la asserita sussistenza di un motivo imperativo di interesse generale, indicato nell’esigenza di assicurare un allineamento temporale dell’avvio delle procedure di gara.

C. Qualora, nondimeno, si ritenesse che vi sia un motivo imperativo di interesse generale, se ugualmente sono stati violati: i) il principio di proporzionalità, perché la misura restrittiva non è adeguata, idonea e proporzionata in senso stretto all’obiettivo pubblico formalmente indicato; ii) il principio di concorrenza per il mercato, perché la scelta di prorogare le concessioni e di posticipare l’avvio delle gare impedisce agli operatori di settore l’esercizio della libertà di impresa, quantomeno sotto il profilo della necessaria programmazione e pianificazione delle attività.

7.- Ai fini della più consapevole decisione della Corte di Giustizia – in ossequio alle Raccomandazioni poste all’attenzione dei giudici nazionali e relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (2019/C 380/01) – alla stessa deve essere trasmessa, a cura della Segreteria della Sezione, oltre a copia conforme all’originale della presente ordinanza, copia dell’intero fascicolo di causa.

In particolare:

l’invio della presente domanda di pronuncia pregiudiziale (e degli altri documenti correlati a tale domanda) andrà effettuato a mezzo dell’applicazione e-Curia (https://curia.europa.eu/jcms/jcms/P_78957/it/);

una copia modificabile della presente domanda di pronuncia pregiudiziale (e degli altri documenti correlati a tale domanda) andranno trasmessi al seguente indirizzo: [email protected]

8.- In attesa della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea, si rende necessario disporre, ai sensi dell’art. 79, comma 1, del cod. proc. amm., la sospensione del presente processo, riservando alla sentenza definitiva ogni pronuncia in rito, nel merito e sulle spese di giudizio.

9.- Infine, deve rilevarsi che, nelle more del deposito delle presente ordinanza, questa Sezione, con ordinanza 19 gennaio 2023, n. 210, ha ritenuto – tra l’altro, ma in via logicamente dirimente rispetto alle ulteriori considerazioni ivi svolte – l’inammissibilità dell’istanza cautelare che, medio tempore, era stata reiterata dalla parte appellante «essendo la causa già trattenuta per la decisione di merito» (all’udienza del 1° dicembre 2022, in esito alla quale è stata deliberata la presente ordinanza).

Alla stregua dei profili di fumus boni iuris qui rilevati – pur se in attesa della decisione della Corte di Giustizia – e della durata della sospensione del giudizio che qui si dispone, per il principio di continuità delle tutela cautelare resta in facoltà delle parti richiedere, qualora dimostrino, altresì, la sussistenza di un adeguato periculum in mora, la concessione di ulteriori misure cautelari ove risultino effettivamente non più sufficienti quelle già disposte con l’ordinanza di questa Sezione 24 gennaio 2020, n. 336, tuttora efficace.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, non definitivamente pronunciando sull’appello indicato in epigrafe:

a) rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni pregiudiziali indicate in motivazione;

b) ordina alla Segreteria della Sezione di trasmettere alla medesima Corte copia conforme all’originale della presente ordinanza, nonché copia integrale del fascicolo di causa;

c) dispone, nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la sospensione del presente giudizio;

d) riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in rito, nel merito e sulle spese e gli onorari di giudizio”.

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