Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda) ha respinto – tramite sentenza – il ricorso presentato da un operatore contro il Comune di Manta (CN), in cui si chiedeva l’annullamento del provvedimento (…) con il quale l’Amministrazione Comunale, rigettando le osservazioni presentate (…), ordinava la chiusura degli apparecchi da gioco, installati e presenti presso i locali siti in Manta (…), meglio individuati nel verbale di ispezione di cose e di luoghi diversi (…), mediante l’apposizione dei sigilli, demandando l’esecuzione del provvedimento, con apposizione dei sigilli ai singoli apparecchi, alla Polizia Municipale del Comune di Manta; del regolamento Comunale approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 9 del 27 aprile 2015, modificato per adeguamento alla legge regionale 2 maggio 2016, n. 9 e s.m.i. “Norme per la prevenzione e il contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico” approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 39 del 14 dicembre 2016 nella parte modificata ed integrata con DGC n. 13 del 31.03.2017 e D.G.C. n. 36 del 22.04.2017, che parimenti si impugnano.
Nella sentenza si legge: “L’impresa individuale (…) gestisce un esercizio commerciale, sito nel comune di Manta, presso il quale sono installati sistemi di gioco VLT (di cui all’art. 110 comma 6 lettera b. del TULPS), giusta SCIA presentata il 6.07.2017 e autorizzazione della Questura della Provincia di Cuneo del 5.07.2017 (rinnovata il 9.10.2017). Il sig. (…) risulta procuratore speciale di altro soggetto cessionario del ramo di azienda che comprende l’attività descritta. A seguito di sopralluogo della polizia municipale, del personale del ufficio tecnico comunale e della guardia di finanza (effettuato in data 22.09.2017) e di regolare procedimento in contraddittorio (avviato con nota del 20.02.2018), il Comune, con provvedimento n. 3149 del 17.04.2018, ha disposto la chiusura degli apparecchi da gioco, demandando alla polizia municipale l’esecuzione dell’atto con apposizione di sigilli, a causa del mancato rispetto delle distanze legali minime da luoghi sensibili e di svago. (…)
Il fatto che l’attività gestita dai ricorrenti sia “dedicata”, cioè contempli solo la presenza di apparecchiature VLT, non implica che le disposizioni della LRP n. 9/2016 (recante Norme per la prevenzione e il contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico, peraltro medio tempore abrogata e sostituita dalla LRP n. 19/2021 le cui previsioni comunque, per quanto qui interessa, sono in linea con il testo previgente) e del regolamento comunale non siano ad essa applicabili.
La legge regionale, infatti, pur distinguendo (all’art. 2) tra “sale da gioco” (quali “locali nei quali si svolgono i giochi a rischio di sviluppare dipendenza, ai sensi dell’articolo 86 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773”) e “spazi per il gioco” (quali “gli spazi riservati ai giochi di cui all’articolo 110, commi 6 e 7 del r.d. 773/1931 all’interno di esercizi pubblici e commerciali, di circoli privati ed in tutti i locali pubblici od aperti al pubblico in cui sono presenti o comunque accessibili le forme di gioco a rischio di sviluppare dipendenza previste dalla normativa vigente”), disciplina, all’art. 5, le distanze minime per la collocazione, con riferimento esclusivo alla mera presenza di apparecchi per il gioco (definiti come” gli apparecchi ed i congegni di cui all’articolo 110, commi 6 e 7 del r.d. 773/1931”, tra i quali rientrano quelli gestiti dai ricorrenti), senza specificare o differenziare l’operatività di tali divieti a seconda della tipologia di locale in cui gli stessi si trovano.
Allo stesso modo il regolamento comunale (cfr. doc. n. 4 di parte ricorrente) impone il rispetto delle distanze dai luoghi sensibili per tutti quegli esercizi commerciali o pubblici in possesso o meno dei titoli autorizzatori di cui agli artt. 86 e 88 del TULPS (cfr. artt. 11 e 13 del regolamento) e nei quali siano presenti apparecchi per il gioco.
Il divieto di installazione di apparecchi da gioco a distanze inferiori a quelle normativamente previste, pertanto, discende direttamente dalla norma regionale, anche se sul punto i ricorrenti non argomentano.
Non risultano peraltro conferenti le argomentazioni dei ricorrenti che sostengono l’estraneità del proprio caso di specie dall’ambito oggettivo di applicazione del regolamento comunale per il solo fatto che le “sale dedicate” non siano incluse nelle definizioni di cui all’art. 3 del medesimo regolamento e per il fatto che nel titolo del provvedimento si faccia solo riferimento alle “sale giochi” (doglianza riportata nel secondo motivo di ricorso). Occorre altresì osservare che il decreto del Direttore dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato del 22.02.2010, all’art. 9, lett f), più volte invocato dai ricorrenti, nulla dice sull’operatività dei limiti spaziali e delle distanze dai luoghi sensibili, ma si limita a prevedere che “gli apparecchi videoterminali possono [ ] essere [ ] installati esclusivamente in: […] f. esercizi dediti esclusivamente al gioco con apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6 del T.U.L.P.S.”.
Il fatto che i ricorrenti siano in possesso della licenza rilasciata dalla Questura, inoltre, non li esime dall’obbligo di rispettare gli ulteriori limiti derivanti dalle norme regionali e comunali. Lo stesso provvedimento statale, infatti, reca espressamente la seguente dicitura: “la presente autorizzazione deve intendersi rilasciata ai soli fini di pubblica sicurezza fatte salve le limitazioni imposte da norme di legge statale, regionale o da regolamento comunale e, in particolare da quelle inerenti la nuova collocazione di apparecchi a distanza dai luoghi sensibili”.
Quanto alla SCIA (rectius CILA) presentata dai ricorrenti in data 6.07.2017 (cfr. doc. n. 9 di parte ricorrente), occorre rilevare che oggetto della pratica sono le modifiche interne da realizzare nel locale commerciale (di cui è allegata planimetria). La comunicazione ha evidente rilievo edilizio e, pertanto, la doglianza relativa al mancato esercizio dei poteri inibitori in ordine ai profili commerciali connessi alle attività svolte nei locali non risultano condivisibili.
Dalla lettura della DGC n. 36/2017, infine, emerge che il contenuto specifico del provvedimento è la rappresentazione planimetrica dei cd. luoghi sensibili previsti già nel regolamento approvato nel 2015. Contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente, non è stato aggiunto alcun ulteriore elenco di luoghi sensibili, rispetto alle previsioni del regolamento, ma sono solo elencati ed individuati cartograficamente i luoghi sensibili rientranti nelle definizioni dell’art.4 bis del regolamento comunale e dell’art. 5 della citata legge regionale (cfr. doc. n. 6 di parte ricorrente).
Sul punto il Collegio osserva, altresì, che i ricorrenti si limitano a dedurre l’impossibilità di collocare sul territorio comunale apparecchi da gioco senza però fornire alcun elemento di prova a conforto di tale affermazione. Lamentano che la delibera n. 36/2017 individuerebbe intere vie e piazze come punti sensibili.
In realtà, dall’esame del testo e della planimetria allegata alla delibera, emerge che l’uso della toponomastica viaria sia solo lo strumento per individuare aree esterne di svago ed aggregazione e non per definire quali luoghi sensibili le aree corrispondenti. L’amministrazione comunale, di contro, fornisce elementi dai quali desumere che sul territorio comunale vi sono ulteriori spazi per la collocazione dell’attività commerciale di cui si controverte in luoghi compatibili (cfr. doc. n. 29 di parte resistente).
Le delibere comunali impugnate, pertanto, non effettuano alcuno smisurato ampliamento dei luoghi sensibili come lamentato dai ricorrenti.
Per quanto precede, pertanto, il primo motivo di ricorso è infondato.
6. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione della legge Regionale n.9/2016, art. 5, dell’art. 4 bis del regolamento comunale e della D.G.C. n.36 del 22.04.2017; violazione del principio generale della ragionevolezza e della proporzionalità degli atti amministrativi, violazione dell’art. 97 della Costituzione, violazione degli artt. 2 e 3 della legge n. 241/1990.
In particolare viene contestato il contenuto dei verbali e della comunicazione di avvio del procedimento che riferiscono che la distanza dalla casa di riposo (…) sia inferiore ai 300 mt fissati dalla legge e dal regolamento comunale (segnatamente di 284,10 mt.). Tale distanza sarebbe stata calcolata non considerando l’unico percorso pedonale possibile (riportato nella relazione tecnica di cui al doc. n. 12 di parte ricorrente).
Viene poi contestata l’ascrivibilità a “luoghi sensibili” delle aree verdi indicate nel verbale di sopralluogo, in quanto né la legge regionale né il regolamento ne farebbero menzione (tantomeno il provvedimento motiverebbe sul punto).
Le censure non sono condivisibili.
Parte ricorrente e parte resistente depositano due ricostruzioni planimetriche del calcolo del percorso tra l’ingresso dei locali dei ricorrenti e l’ingresso della casa di riposo citata (cfr. doc. n. 12 di parte ricorrente e doc. n. 26 di parte resistente).
Dal riscontro di tali documenti emerge che le misurazioni effettuate dall’amministrazione risultano credibili e conformi al dettato normativo.
La LRP n. 5/2016, all’art. 5, prescrive che la distanza di 300 mt dai luoghi sensibili deve essere misurata “in base al percorso pedonale più breve”. I ricorrenti contestano al comune di aver utilizzato misurazioni in linea d’aria o che utilizzano scorciatoie non praticabili. Tale rilievo non corrisponde alla realtà. Dal rilievo e dalla documentazione fotografica a corredo del sopralluogo effettuato dall’amministrazione (cf. doc. n. 26), risulta che il percorso risulta non solo praticabile a piedi, ma anche interamente lastricato e segnalato, e che la distanza tra l’ingresso dell’attività commerciale e l’ingresso pedonale della casa di riposo è inferiore al limite legale, segnatamente pari a 288,7 metri ad altezza porta, 278,8 se misurati al primo gradino della rampa delle scale di ingresso.
La misurazione effettuata dai ricorrenti, invece, conduce all’accesso carraio della struttura, ma questo non risulta essere l’unico accesso pedonale della stessa e, comunque, non è sicuramente quello più breve, valendo a tale scopo quello utilizzato dall’amministrazione.
Quanto all’ulteriore profilo di doglianza, occorre evidenziare che la legge regionale indica tra i luoghi sensibili, all’art. 5 lett f), le “strutture ricettive per categorie protette, luoghi di aggregazione giovanile ed oratori”.
L’art. 4 bis del regolamento comunale, alla lett. f), individua i “luoghi pubblici adibiti allo svago”. La delibera di giunta evidenzia che per tali si intendono anche le aree verdi attrezzate con panchine e giochi (i cd. giardinetti) e provvede ad individuarle sulla planimetria del territorio comunale.
Il Collegio evidenzia che vi è piena sovrapponibilità tra le categorie di luoghi sensibili individuati dalla norma regionale e i provvedimenti comunali, giacché le aree verdi pubbliche sono definibili come luoghi di aggregazione giovanile nonché luoghi pubblici adibiti allo svago. Nessuna attività arbitraria è imputabile al Comune dal momento che è la stessa legge regionale (all’art. 5 comma 2) che dispone che “i comuni possono individuare altri luoghi sensibili in cui si applicano le disposizioni di cui al comma 1, tenuto conto dell’impatto degli insediamenti sul contesto e sulla sicurezza urbana, nonché dei problemi connessi con la viabilità, l’inquinamento acustico ed il disturbo della quiete pubblica”.
Le amministrazioni comunali, pertanto, possono anche ampliare il novero dei luoghi sensibili purché tengano di conto del contesto e dei profili di sicurezza pubblica. Orbene, la inclusione delle aree verdi pubbliche nel contesto delle aree sensibili ben risponde a tale principio, dal momento che risulta del tutto ragionevole affiancare a scuole e case di riposo (definite direttamente dalla legge come aree sensibili) anche punti di maggior ritrovo e aggregazione delle medesime fasce di popolazione che frequentano i primi.
Il Collegio infine rileva che i ricorrenti, con il motivo di ricorso, deducono, senza argomentare, la violazione dei termini procedimentali.
La doglianza è inammissibile per genericità.
Per quanto precede, nemmeno il secondo motivo di ricorso può essere accolto.
7. Con il terzo motivo si lamenta la violazione degli art. 1, 2 e 19 della l. n. 241/1990.
I ricorrenti sostanzialmente deducono la violazione dei termini procedimentali ed in subordine instano per il risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell’art. 2 bis della L. n. 241/1990.
La doglianza non è fondata.
Nell’argomentare il ritardo ritenuto illegittimo, i ricorrenti evidenziano che l’amministrazione era a conoscenza della loro intenzione di avviare l’attività commerciale dal marzo 2017 e, a fronte della SCIA (rectius CILA) del 06.07.2017, i sopralluoghi si erano svolti solo il 22.9.2017 e, dopo un primo procedimento non concluso, era stato avviato un nuovo procedimento il 19.02.2018, concluso con provvedimento n. 3149 del 17.04.2018.
I termini invocati dai ricorrenti, ai sensi dell’art. 19 della L. n. 241/1990, potrebbero afferire alla CILA sopra citata la quale, però, inerisce ai soli profili edilizi relativi ai lavori di sistemazione dei locali. Alcuna inibizione all’attività commerciale sarebbe potuta derivare da eventuali controlli sui profili edilizi.
I poteri esercitati dal Comune a seguito del sopralluogo effettuato il 22.09.2017 (l’attività è stata avviata il 20.09.2017) rientrano nei poteri di vigilanza e repressione degli illeciti previsti nella legge regionale (artt. 10 e 11 della LRP n. 9/2016).
Ciò che, pertanto, può rilevare è un giudizio sul lasso di tempo intercorso tra gli accertamenti e l’avvio del procedimento di cui si controverte (pari a circa 5 mesi), che ad avviso del Collegio non risulta né incongruo né sufficiente per ingenerare alcuna forma di affidamento nel comportamento dell’amministrazione.
Il Collegio inoltre evidenzia che non risulta ammissibile la domanda risarcitoria formulata nel motivo in scrutinio ai sensi dell’art. 2 bis della L. n. 241/1990, in primo luogo perché parte ricorrente non dimostra quale sia il termine procedimentale violato (dal momento che non può essere considerato il superamento dei 30 giorni per l’esercizio dei poteri inibitori connessi alla CILA) e quindi l’ingiustizia del danno, e non fornisce alcun elemento probatorio sulla colpa dell’amministrazione, sul nesso causale e sulla quantificazione dello stesso.
È noto che. per giurisprudenza costante, “il danno che si produce nella sfera giuridica del privato, e del quale quest’ultimo deve fornire la prova sia sull’an che sul quantum, deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte, ovvero all’adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell’amministrazione, cosicché l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono in linea di principio presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell’adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante)” (Cons. Stato Sez. III, 18/08/2022, n. 7280).
Il provvedimento amministrativo impugnato, pertanto, non risulta aver violato alcun termine procedimentale; in ragione di ciò anche il terzo motivo di ricorso non è fondato.
8. In conclusione il ricorso è infondato e pertanto deve essere respinto.
9. Le spese di lite seguono la soccombenza, nei confronti del comune, e sono liquidate come da dispositivo; possono essere compensate nei confronti del Ministero dell’Interno in ragione della costituzione di mero stile.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alle spese di lite in favore del Comune di Manta che liquida in euro 3.000 (tremila/00) oltre oneri accessori; spese compensate nei confronti del Ministero dell’Interno”.